Ricette

Maccheroni dal Medioevo alla De.Co

Secondo il linguista Giacomo Devoto il termine “maccheroni” deriva da “macco” una polentina di legumi, maccare e ammaccare stava, infatti, a significare: schiacciare per esser consumati. Esattamente come avviene per il frumento che viene ridotto in polvere per ottenere la farina fondamentale per la realizzazione della pasta.

Il termine ampiamente diffuso in epoca medievale e nei testi di cucina indicava in modo generico diversi formati di pasta. Una tra le prime citazioni sui maccheroni risale al 1279 in un documento redatto dal notaio Ugolino Scarpa, nell’elenco di ciò che un uomo d’armi genovese, tale Ponzio Bastone, lasciava alla sua morte tra cui una bariscella plena de macaronis. A Napoli presso la corte angioina la regina Maria, madre di Carlo Martello d’Angiò nel settembre del  1295 incarica di pagare ai creditori “quattro once per prezzo di maccheroni ed altro”. Il termine compare anche nel Decameron di Boccaccio nella descrizione delle delizie del paese di Bengodi e nelle ricette del grande cuoco del XV secolo Maestro Martino, che riporta i Maccheroni  alla romana, cioè strisce di pasta tagliata e i Maccheroni alla genovese, molto più sottili, e quelli alla siciliana, modellati con un ferro.  Nelle raffigurazioni del libro Opera (1570) di Bartolomeo Scappi, uno dei grandi maestri della cucina rinascimentale,  compare il ferro da maccaroni, un apposito arnese per tagliare la pasta.

 

Anche il Messisbugo, scalco alla corte estense nella prima metà del XVI secolo, parla, nell’opera Libro Novo, di un particolare arnese denominato ingegno per i maccheroni, cioè  un marchingegno, un torchio per fabbricare la pasta. Quest’ultimo attrezzo meccanico per la formatura  fu adottato in massa dai pastai napoletani i quali portarono, così,  la fabbricazione su larga scala tanto da guadagnarsi, nel Settecento, l’appellativo di mangiamaccheroni.  Per quanto riguarda i condimenti occorre tener presente che solo nel XVIII secolo nacque la consuetudine di condire i maccheroni con salsa di pomodoro come riporta, per primo, il cuoco romano Francesco Leonardi nella ricetta dei Maccaroni alla Napolitana.

Il termine maccherone comporta, ancor oggi, notevoli differenze di tipo regionale e locale. In Abruzzo quando si parla di maccheroni ci si riferisce ai maccheroni alla chitarra, una pasta lunga a sezione quadrata, tagliata con un apposito strumento.  In regioni come la Toscana e il Molise, i maccheroni sono identificati con pasta molto simile agli spaghetti o alle tagliatelle. In Calabria quando si tratta di maccheroni si intende la fileja, ossia un tipo di pasta lunga, come mezzo spaghetto, ottenuto arrotolando la pasta intorno ad un ferro, come del resto avviene in Sicilia. Mentre a Napoli i maccheroni si collegano al ragù nella ricetta codificata nel  1837 nel libro di Cucina teorica-pratica del gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, il quale, tra l’altro, sancisce la regola della cottura al dente.

Nel parlare di maccheroni si scopre che  anche Canepina, un antico borgo posto alle falde dei Monti Cimini in provincia di Viterbo, vanta una lunga storia nonché una particolare pasta all’uovo tradizionale, chiamata localmente Maccaroni di Canepina o Fieno canepinese. La ricetta ha origini antichissime, proviene dalla Tuscia e si tramanda, di generazione in generazione, fin dal Medioevo.

La tecnica di lavorazione della pasta è rimasta immutata nel tempo, così come le conoscenze e le abilità necessarie per prepararla al meglio. Lo scrittore Felice Cunsolo nel libro  “I maccheroni d’Italia” (1979) fa riferimento ai maccheroni di Canepina chiamandoli fieno, per sottolineare la similitudine ad uno stelo d’erba, stante il sottilissimo formato molto simile a quello dei capelli d’Angelo. Per i Maccheroni di Canepina occorrono  uova fresche e farina di grano duro (un uovo ogni 100 grammi di farina), la preparazione è piuttosto laboriosa, richiede uno strato di pasta molto sottile, tra 0,15 e 0,8 millimetri, che va arrotolata e tagliata, con un coltello, in striscioline sottilissime e lasciata asciugare all’aria.

Tale formato consente una cottura estremamente breve, appena un paio di minuti. Alcune massaie consigliano di bollire il Fieno in acqua priva di sale, scolarlo e poi conservarlo in una salamoia, costituita da acqua fredda e sale. Al momento di portarlo in tavola va scolato nuovamente, asciugato con uno strofinaccio di canapa, e poi condito con una salsa bollente. Su questa pasta si consiglia, generalmente, un sugo di carne macinata, o con interiora di pollo, tuttavia è ottima anche in bianco con funghi porcini. Prima di servire si aggiunge il formaggio: secondo la tradizione solo il pecorino. Per tale pasta il Comune di Canepina ha creato, nel 2018, un’apposita Denominazione Comunale di Origine (De.Co.) denominata Fieno di Canepina al fine di valorizzarne la produzione, garantendone al tempo stesso la tracciabilità, la qualità e la tipicità.

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